Se parlando con un russo, in inglese o lasciandovi sedurre da quella dolce giaculatoria consonantica che è il rudimentale italiano degli slavi, provaste a esprimere, con una certa gaia ingenuità, il proposito di voler imparare la lingua russa -magari per poter meglio penetrare lo spirito della grande tradizione letteraria di quel paese- vedreste senz’altro, con vostro grande disappunto, dipingersi un certo ironico stupore sul viso del vostro interlocutore; questi, prima che la vostra stizzita delusione si trasformi definitivamente nel sospetto che egli vi stia motteggiando, vi farà amichevolmente notare che la vostra impresa non è per nulla facile, che insomma vi accingete quasi a una fatica di Sisifo! Vi dirà, sempre con un vago e indefinito sorriso sulle labbra, che loro, i russi, pronunciano molte più parole di noi italiani per esprimere un concetto, per quanto semplice esso sia. Anzi, il messaggio, a conti fatti, è straordinariamente elementare, tuttavia è imbrigliato, avviluppato in un melodioso fiume di parole. Non vi salti poi in mente di chiedere al vostro ipotetico amico il significato di qualche termine specifico, vi potreste sentir rispondere, tanto per restare in un ambito squisitamente letterario, che noi italiani, ad esempio, traduciamo con la parola “babbino” il vezzeggiativo “batiuschka”, ma che di fatto esso ha mille altre sfumature di senso, esprime una prossimità con l’altro molto più profonda: nell’Ottocento, difatti, il termine veniva adoperato prevalentemente nella conversazione con parenti o amici stretti ma non era insolito il suo utilizzo nella preghiera o per designare i ministri di dio.
“Bevi, Batiuschka” (in alcune versioni “bevi” è sostituito da “mangia”) è la battuta di apertura di Zio Vanja di Čechov, la pronuncia la governante Marina rivolta al dottor Astrov; in questa battuta è già tutto un mondo: sin dalla prima parola del dramma siamo precipitati in una atmosfera intimista. Da subito capiamo che non esiste un presente, ma che questo stadio temporale non è altro che lo specchio, il riflesso sbiadito di un passato felice; non a caso, dopo qualche rigo, uno dei due personaggi in scena chiede all’altro da quanto tempo si conoscano, vale a dire, sente il bisogno di quantificare il tempo passato, di misurarne lo scorrere. Rimas Tuminas, il geniale direttore artistico del Vakhtangov Theatre, porta al teatro Mercadante di Napoli uno Zio Vanja senza tempo; il regista sceglie il piano dell’assoluto e vi adagia sopra la sua trama onirica di corpi, suoni e morbide luci. Egli coglie lo spirito di Čechov, lo penetra totalmente, aderisce con tutto se stesso alla mesta e comica anima del testo; tuttavia, infonde in essa come una nuova linfa, vi riversa dentro tutto il retaggio della scuola teatrale russa: la grande fusione tra l’ossessivo mimetismo stanislavskiano e la clownerie, la consapevolezza delle azioni fisiche di ascendenza mejercholdiana.
La dimensione temporale del testo è tradotta dal regista, scenograficamente, con una sorta di paesaggio metafisico: sul lato sinistro della scena v’è uno scranno di legno a tre posti, sul fondo una pallida sfera luminosa attaccata ad un filo a indicare alternativamente la luna e il sole, ed infine, sul lato destro, un tavolo da lavoro da falegname; il tutto degno di un Paul Delvaux o di un De Chirico. La musica dello spettacolo, curata da Faustas Latenas, è come un soffice tappeto di note sul quale ininterrottamente danzano tutti i personaggi, una brina di suoni che ricopre delicatamente tutti e tutto; in alcuni momenti questa serica tessitura di note ci fa letteralmente percepire -predisponendo all’ascolto tutta la nostra veste sensoriale- l’atmosfera di sospensione spazio-temporale che pervade tutta la rappresentazione. Gli attori compongono una macchina ben lubrificata: ogni ingranaggio di questo congegno umano si incastra nell’altro senza alcun attrito, dente su dente in una morsa danzante che diverte e commuove.
Non c’è posto qui per lo strappo, per l’urlo, lo scandalo a buon mercato, il baccano da macelleria dei corpi e delle arti, la frivolezza di un nuovo che si regge su gambe malferme; non c’è posto per i baroni del teatro che pontificano dall’alto delle loro eterne sovvenzioni statali. Qui ci sono attori che aderiscono così bene al loro essere corpi in scena da tramutare ogni singolo gesto, ogni loro movimento, per quanto apparentemente insensato e un po’ folle, in una emozione: chiara, diafana, di una intelligibilità che trascende la distanza linguistica e culturale. Gli attori recitano il testo cechoviano in russo, ma compongono con il loro torrente in piena di consonanti fricative e i loro corpi una sublime pasigrafia; non solo, la lingua russa che usa tante più parole di quella italiana, che tutte le agglutina in un denso e soffice impasto di suoni, crea come un’altra colonna sonora che si affianca a quella vera e propria, ma che nulla, proprio nulla ha da invidiarle. Sergej Makoveckij è un Vanja che deve molto al circo e alla funambolica follia dei clown; la scena in cui tenta di sparare al vanesio Sieriebrakov/Vladimir Simonov è indicativa da questo punto di vista, essa è tutta imperniata su di una recitazione buffonesca e paradossale: dopo aver mancato il professore, Makoveckij gli si avvicina, gli tasta il petto ringalluzzito dalla scampata morte e gli fa cenno di gettarsi a terra con un rapido movimento del braccio destro; la scena è esilarante. Il professore uscendo indenne dalla sparatoria ha violato le leggi della fisica e della natura, Vanja con la sua grottesca pantomima gli suggerisce di assumere la posizione più consona alla situazione: quella del morto.